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Diario da Podgorica

14 May 2009 ore 12:00

Come molti di voi ricorderanno, mesi fa davamo notizia di un'impresa in procinto di prendere il largo: Simone Perotti, lo scrittore skipper, e Pasaya, uno splendido sloop, sarebbero partiti da Genova alla volta di Phuket, in Thailandia, per portare un semplice messaggio di pace fra due nazioni che celebrano i centocinquant'anni di rapporti diplomatici. Poi l'impresa prese effettivamente il largo e nel tempo trascorso si sono succeduti problemi e colpi di fortuna, rinunce scottanti e soddisfazioni che non possono essere raccontate... insomma: i soliti imprevisti della navigazione.
Tuttavia, va da sè che 150 anni spesi a cercare di capirsi col dialogo, a venirsi incontro e a sostenersi reciprocamente valevano certo qualche rischio e qualche incomodo. Ora: qualcuno potrebbe pensare che quanto sopra sia pura retorica, e che in fondo il vero marinaio apprezzi e anzi ricerchi e aneli la "tempesta perfetta", la sfida con gli elementi... insomma: che prediliga le disgrazie. Siccome potreste pensare anche che qui in redazione non siamo... più velisti di voi (e avreste proprio ragione), lasciamo volentieri che sia qualcuno di più titolato a sfatare questo mito: la parola allo stesso Simone. 

 


di Simone Perotti


Dopo l'atterraggio a Tel-Aviv, prima tappa del raid che deve portare Pasaya a Phuket, sono rientrato in Italia per l'attività di charter, scuola vela, per i trasferimenti di barche. La vita dello skipper è così, si va dove c'è lavoro. Per riprendere il viaggio, gli armatori devono fare le loro valutazioni sui pirati (cosa non da poco, evidentemente) e sull'organizzazione. Io aspetto di avere notizie. Ma non si resta mai con le mani in mano in mare. C'è da organizzare il lavoro del ponte del 2 Giugno, c'è da navigare, riparare le barche e via così. Se oltre al mare c'è la scrittura, come nel mio caso, bisogna anche sedersi al tavolino e scrivere. Correggere le bozze del libro che esce a Settembre, buttare giù gli articoli per le riviste, studiare per il prossimo romanzo (una storia di pirati nel XVI secolo). C'è anche da fare una puntata in Montenegro, come vedrete. La parte più importante però la fanno gli affetti e il silenzio. Quando non navigo sto nella mia casetta, pianto pomodori e peperoncini, semino il prato dove non c'è, taglio alberi nel bosco per la legna che mi riscalderà d'inverno (la mia casa non ha riscaldamento, ha solo il camino). Un marinaio ha bisogno di una casa silenziosa, dove nascondersi e lavorare coi piedi sulla terraferma. Ne ha bisogno più di chiunque altro...



Podgorica, 7 maggio.

L'aereo è piccolo, un bimotore ad elica. Salta e sprofonda nei calanchi ariosi del cielo balcanico. Viene da Vienna, tappa necessaria se si parte da Milano. Da Roma invece c’è un volo diretto. Quando sfondiamo le nuvole basse vedo il lago di Skutari. Bacini e paludi tra le montagne bianche e verdi, pietra e arbusti. L'azzurro dell'acqua ha qualcosa dell'acciaio e del pervinca. Sono stato qui quando avevo otto anni, nel 1973. Si chiamava Titograd, Yugoslavia. Ricordo il guardiano di un campo di alberi di prugne che ci rincorreva col bastone. Piccoli ladri di frutta, per di più occidentali. Pioveva, il grigio sembrava una spora, entrava dentro, contaminava ogni cosa.

 

Per un pezzetto di carne mio padre fece una lunga fila. Lo comprò tutto e il macellaio chiuse il negozio. La gente dietro di lui non protestò, andò via in silenzio, senza niente da mangiare. Era stato un grosso sbaglio, ma era tardi per rimediare. Oggi c'è il sole, invece. Luce mediterranea, continentale, sfavillante. Le ragazze montenegrine sono splendide, sorridono, tengono il tuo sguardo. Sono tutte alte, formose, spalle larghe, gambe lunghissime. Non hanno l'ansia di sembrare come le nostre donne. Solo grandi occhiali da sole, quelli delle pubblicità, che coprono ahimé splendidi occhi. Podgorica non è una città particolarmente bella. Però c’è vita serena, la gente sembra non abbia troppa ansia. Cammino fino al Millennium Bridge, sul fiume Rijeka. C'è anche poco traffico, un po’ al rallentatore. Sono io che rendo questo posto sereno o è lui a darmi tranquillità? Questa domanda mi affascina sempre, e sempre mi lascia senza risposta. "I viaggi sono i viaggiatori" diceva Pessoa, e so che è così. L’immagine dei montenegrini è quella di essere dei duri montanari, o comunque uomini fieri, poco inclini allo scambio, alla comunicazione. Qui invece nulla aggredisce. Il Montenegro, tra l’altro, è un posto molto sicuro. Per tutto l’orizzonte corrono montagne scabre. Gli ottomani fecero molta fatica a piegare questo Paese. I suoi uomini sono come la selce, e il paesaggio non aiuta gli invasori. Come controllare queste montagne, questa alture, come tenerle in pugno per lungo tempo? Ho un grande privilegio ad essere libero, a viaggiare in queste terre, come altrove. Il privilegio è duplice, farlo e farlo a Maggio.

 

Spendo un po' del mio tempo per masticare il sapore di questa condizione esclusiva mentre guardo il fiume. Trovo giusto, doveroso, essere qui, onorare la vita facendo il giro del Luna Park dove sono stato messo da qualche mano invisibile. E sono sereno, come ogni volta che visito un Paese del Mediterraneo. Oggi parto per la costa. Il mercato della verdura, piccola kasba, verrà sostituito dalla pietra veneziana. Le montagne dal mare. La capra dal pesce. Mi imbarco a Tivat, all’interno delle bocche di Cattaro (Kotor). Questo fiordo, quest’ansa interna del mare, è un unicum nel Mediterraneo. Si trova nella parte più settentrionale della costa montenegrina. Dall’Adriatico il mare entra in un golfo ampio e da qui la terra si apre ad un secondo golfo, ancora più interno. Un rifugio naturale straordinario, che protegge dallo Jugo (lo Scirocco) e dalla Bura (la nostra Bora). Qui navigare è semplice, non ci sono bassi fondali, semmai il problema è ancorare, visto che fino quasi a riva ci sono venti o trenta metri di fondale. Ma io sono privilegiato, viaggio a Maggio, e c’è posto dovunque. Kotor è bella, veneziana, sovrastata da mura ciclopiche ben conservate che scalano la montagna. Servivano a proteggere dalle invasioni turche dell’entroterra. Qui turchi, pirati, invasori hanno sempre imperversato. Le vie della cittadina, i passaggi nelle mura di pietra, le piazzette sono belle, ariose, e la gente che passeggia se le gode con evidente piacere. Potrei visitare, leggere, e avrei il mio da fare. Storia, cultura, arte, c’è tutto. Siamo nel Mediterraneo, del resto, e questo non stupisce.

 

Al centro del golfo più interno ci sono due isole. Somigliano molto alle Borromee, per chi conosce il lago di Varese. Una è artificiale, costruita con la fatica e le donazioni dei fedeli. Si chiama Nostra Signora della Roccia e pare un campiello veneziano. L’altra è naturale, verdissima, San Giorgio. Ci si ormeggia all’inglese e si scende per l’emozione di guardare il lago dal centro, sormontato, avvolto da montagne alte e verdissime. Più avanti sulla costa c’è Budva, ansa ben protetta da Maestrale, Bora, e nella rientranza di fronte perfino dallo Jugo. Qui stessa scena: gente che passeggia, vita quieta di mare, pesce fresco, e una cittadella veneziana di pietra da percorrere, da assaporare. Ci si sta bene, ecco, si sta proprio bene. Sulla spiaggia un paio di cocktail bar sulla sabbia. Un po’ Ibiza, un po’ Rodi. Mediterraneo. Bar è il porto commerciale. C’è anche un marina, il migliore della costa. Da Bari a Bar, per assonanza, si svolge una regata ancora piacevole, senza professionisti, di quelle quasi in estinzione.

 

Quest’anno, pochi giorni fa, l’ha vinta un Oceanis con equipaggio montenegrino e un ospite d’eccezione: Sergio Barbanti, il nuovo ambasciatore italiano in Montenegro. Se non è amicizia tra popoli questa… Le strade con cui si può visitare il Montenegro non sono esaltanti. La guida è disinvolta, diciamo così, l’asfalto spesso approssimativo. Ci sono buche dovunque e la strada più larga è a tre corsie (in tutto). Molto meglio girarlo per mare questo Paese. L’acqua non ha strade, non ha corsie. La costa verso sud è un continuo di perle come Sveti Stefan, la Saint Michelle dell’Adriatico, e baie in fondo a scarpate scoscese, dove il colore del mare oscilla tra il blu e lo smeraldo. Occorre essere marinai, da queste parti. Occorre sapere prevedere il tempo, ripararsi quando è il momento. Non ci sono molti marina, e l’errore di trovarsi in mare quando viene brutto non è semplice da riparare. Si naviga in acque tranquille, ma serve l’occhio lungo. Come lo ebbero i pirati, nel XVI secolo… Una galera con la bandiera nera (che in realtà era rossa) passò qui davanti in un fresco giorno di maggio del 1.500. Vento ideale per fare rotta a Est. A bordo decisero di avvicinarsi. Vennero accolti da una decina di cannonate ben assestata e se ne andarono, ma tornarono indietro dopo qualche tempo. Presero la città, le donne, gli averi e invece di Erano convertiti, rinnegati, turchi, arabi maghrebini, mamelucchi ispanici, greci. Dovevano essere una scena degna del miglior film di Spielberg. Vestiti ognuno per suo conto, armati ognuno alla sua maniera, con cappellacci, turbanti, fasce, bandane, senza una mano alcuni, con mani leste altri, devoti alla religione meticcia del mare, quella della vita che dura un giorno e non torna indietro. La baia era di loro gusto, questo bastava. Il nome di questa cittadina al confine con l'Albania è Ulcinj, Dulcino per i veneziani, ed è la Città dei Pirati.

 

Governata secondo le linee di una sorta di anarchia, restò nelle mani dei filibustieri fino al 1878, nonostante i veneziani abbiano tentato varie volte di riprendersela. Vi fu rinchiuso per tre anni anche Miguel de Cervantes, che alla sua eroina diede il nome Dulcinea... Oggi Ulcinj è un paesotto luminoso, confusionario, ibrido. Un buon 80% di albanesi; ma anche kosovari, montenegrini, serbi che ci vengono in vacanza. Quattro russi fanno un po' di rumore mentre sogno, ora di colazione. E' pericoloso rompermi le scatole mentre sogno... Penso cosa farebbe un losco pirata al mio posto. Mi tocco la fusciacca in vita, ma non trovo il coltellaccio... Ancora a sud, superando il capo della baia. Il vento viene da ovest, sereno e tranquillo.

Poco oltre Ulcinj inizia la spiaggia di sabbia più lunga del Mediterraneo: quattordici chilometri. Ci sfocia il fiuma Boyana, emissario del lago di Skutari; ci si nascondono i nudisti, che qui sono ben tollerati, ci si affacciano palafitte con ristorantini di pesce senza tempo, dove è impossibile non sostare. Oltre, c'è il confine con l'Albania, dove le montagne sembrano ancora più aspre, e dove la pianura del fiume termina il suo spazio libero. Poco prima della fine del Paese incontro una mandria di bufale, sulla spiaggia. Sembra che ne abbiano viste di ogni colore. Se ne stanno al sole, coperte di mosche, senza battere ciglio. La costa ha assistito, con loro, a lunghe scorribande. Da un po' di tempo tutto s'è calmato. Da un paio d’anni il Montenegro è indipendente dalla Serbia. Molti lo confondono con altri paesi, con il Kosovo, con l’Albania, con la Serbia. Aggiornare le mappe geografiche ormai è diventato difficile. Una nazione di 650.000 mila persone.

 

Questo è il Montenegro. Un tratto di Mediterraneo che va navigato, dove il tempo sembra che abbia fatto un passo indietro, forse per lo spavento di vedere, dalle sue spiagge, un’Europa sempre più caotica e triste. Chissà… Da Ada Boyana si può ripartire via terra, direzione Podgorica. La strada più lunga è anche la più bella. La via che sale dalla pianura acquitrinosa del fiume è a stretti tornanti e si fa largo tra le petraie. Selce bianca, macchie di alberi che si diradano. C’è qualcosa di spirituale nell’entroterra. Sul limitare della salita ci si ferma e non si sa dove guardare. Verso occidente, da dove si proviene, dove il mare balena ancora il suo richiamo corsaro, oppure verso oriente, dove si va, e dove le montagne innevate spargono riflessi sul lago di Skutari. Sul crinale si può camminare, in bilico tra la brezza e il cielo.

Mai come qui ho visto ciuffi di salvia selvatica, origano, finocchiella, umori di aromi speziati. Per la via che costeggia il lago, le cui acque sono metà albanesi e metà montenegrine, si ha sovente la sensazione di perdersi. Nei calanchi rocciosi si smarrisce la visione della provenienza. Nelle invitanti mulattiere, che conducono dritte al mistero, scompare il senso della destinazione. Una tappa va comunque fatta nel primo centro abitato che incontrete, una volta scesi a valle. Al limitare di un bosco di salici, dopo la splendida vista del lago e la sua strada al cardiopalmo, bisogna mangiare anguilla arrosto, bietole ripassate in padella, insalata di cetrioli e pomodori con pane giallo arrostito al forno. Il rientro a Podgorica è lieve, a questo punto. Si può ripartire. La costa mi è piaciuta molto. Soprattutto, non somiglia al caos, alla folla tipica ormai di molte parti del Mediterraneo. Non c’è traccia di arroganza, di sfinimento, di furto al turista e viaggiatore; ovvero gli ingredienti che rendono a volte indigesta la pietanza delle nostre coste. Qui voglio tonrare, via mare e via terra. Ho l’impressione che il Montenegro sia ancora inesplorato. Le sue montagne, l’entroterra, nascondono segreti...

 

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