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Al museo del bisso incontriamo Chiara Vigo

15 July 2010 ore 15:00

Generalmente quando si entra in un museo, si ha chiara l’idea di andare a vedere “cose”, oggetti appartenenti al passato che, opportunamente restaurati, vengono conservati ed esposti in pubblico a testimonianza di un passato che non c’è più. Esiste invece un museo dove è conservato ciò che non ci si aspetta. E’ il Museo del Bisso di Sant’Antioco, in provincia del Sulcis Iglesiente, dove il visitatore viene preparato a ciò che vedrà già all’ingresso, dove due cartelli in bella evidenza sulla porta a vetri recitano: “La fretta non abita qui” e “Chi entra nella Sala del Bisso lo fa perché vuole conoscere la Storia di una vita …. perché c’è chi ancora crede che lasciare la propria impronta debba essere un regalo per chi verrà… “.

In questo luogo, più che “cose” viene conservata una “storia”, anzi tante e diverse “storie”, tutte al femminile, che raccontano di un sapere antico tramandato da madre in figlia, fatto di gesti, simboli e di religiosità, e dove il bisso, curiosa e straordinaria fibra marina, è il protagonista. Ed è qui che si trova Chiara Vigo, una delle ultime testimoni di un passato che rischia di scomparire e che lei stessa, con fervente passione, racconta in prima persona a coloro che visitano il Museo. Come una “sacerdotessa” accoglie turisti e visitatori con uno spiazzante “io vi amo tutti” e alla donna più giovane dona un filo di bisso ritorto che, se verrà riportato indietro per il matrimonio, riceverà in dono una coperta ricamata in bisso.

Chiara Vigo si definisce “Su Maistu”, cioè il Maestro, ovvero “.... colui che accetta l’altro per quello che è, e non per quello che vorrebbe fosse. Un maestro è quello che conserva per quelli che verranno ciò che era prima. Un maestro non è altro, ma per arrivare a essere maestri bisogna camminare dietro a un maestro e non a fianco, bisogna fermarsi, bisogna ascoltarlo quando ti parla perché lui non lo dirà più, bisogna prendergli quello che ha secondo quello che va bene per te, lui non ti dà nulla e ti dà tutto, ma non ti ha dato nulla … sei tu che hai preso per essere dopo, in relazione al tuo tempo. E’ scontato che ti debba regalare la sua vita, la sua esistenza, la sua pazienza, la sua conoscenza e tutto quello che ha perché, se non è disposto a fare tutto questo, non è maestro. Quando mia nonna mi ha trasferito il formulario, io, in quel momento, ho capito cosa ero nel frattempo diventata, l’arazzo più bello che mia nonna avesse potuto tessere. Io non me ne ero accorta, mia nonna aveva tessuto dentro di me un arazzo che non si sarebbe disfatto mai.”

 

Al Museo del Bisso la frenesia e l’individualismo della moderna società lasciano posto a una diversa dimensione del tempo e a diversi principi quali il rispetto per l’altro e per la natura, l’accettazione dell’altro e la condivisione di beni. E’ un messaggio importante quello che si riceve al Museo, è una lezione che ci riporta ad un tempo remoto quando l’individuo aveva valore solamente all’interno di una rete di relazioni. Concetti come ”empatia”, “dono”, che hanno ispirato grandi e semi-sconosciute civiltà dell’antichità, stanno riemergendo per contrastare l’entropia e la perdita di identità nelle nostre moderne società. E su questi principi, grandi economisti teorizzano nuove filosofie economiche.

Ad esempio Jeremy Rifkin nel recente libro “La civiltà dell’empatia”, Mondatori 2010, ha elaborato una teoria economica dell’empatia, caratteristica innata negli esseri umani. Egli preconizza che la vera sfida del ventunesimo secolo sarà il ribaltamento dell’individualismo per contrastare il caos che seguirà all’esaurimento delle risorse del pianeta. Anche attorno al concetto del “dono” si sono elaborate teorie, vedi l’economista Stefano Zamagni, e di conseguenza messe in pratica delle iniziative concrete come ad esempio i ”Brutti ma buoni” dell’associazione Last minute market dove i prodotti prossimi alla scadenza ma ancora buoni ed integri, vengono ritirati dagli scaffali dei supermercati e donati alle associazioni di bisognosi. Attraverso il dono e il consumo collettivo, la ricchezza viene distribuita per il benessere della comunità. Una simile società la troviamo in Messico, fra gli Zapotechi di Juchitán, dove le persone guadagnano meriti e stima per la sponsorizzazione dei numerose feste della comunità dette “Velas”. In questa società sono le donne a gestire i commerci e più in generale la ricchezza, colei che gode di più stima nella società, per se e per i propri familiari, non è quella che possiede di più ma quella che dona di più.

 

Che cosa è il bisso?


Il bisso è il filamento che la più grande conchiglia bivalve del Mediterraneo, la Pinna Nobilis o nacchera, emette per ancorarsi ai fondali. In un preciso periodo dell’anno, Chiara Vigo stessa si immerge in subacquea per raccogliere tale filamento nelle “praterie” di Pinne Nobilis usando una tecnica tale da non compromettere la sopravvivenza della conchiglia stessa. Una volta le pinne venivano interamente estirpate dai fondali e ogni parte veniva riutilizzata: la conchiglia era usata per ricavarne vasi, paralumi, e altri lavori ad intarsio; la madreperla serviva per fare bottoni; la carne era cibo; le perle diventavano decorazioni e gioielli. Da un banco di pinne di sette anni si ottengono circa 600 grammi di prodotto. Il bisso raccolto deve poi subire una lunga e laboriosa lavorazione che dura circa 25 giorni per essere pulito, lavato e pettinato. Successivamente deve subire un ulteriore processo di ammollo in una soluzione a base di succo di limone che gli conferisce elasticità e lucentezza. A questo punto il filo assume splendidi riflessi dorati e una finezza che gli valgono i sopranomi di “oro del mare” o “seta del mare”.

La lunga e laboriosa lavorazione associata alla relativa scarsità di prodotto e alla finezza del filato, ne facevano un prodotto molto costoso e molto ricercato, sopratutto da clero e nobiltà. Le lavorazioni più diffuse erano a maglia per realizzare scialli, guanti, berretti, cravatte… con o senza la particolare lavorazione detta a “pelliccia”, oppure intessuti per ricavare preziosi ricami. Oggi la pinna nobilis è in via d’estinzione e per questo è urgente mettere in atto delle politiche che la tutelino dall’estinzione. La sopravvivenza dell’antica cultura del bisso dipenderà anche da quanto si sarà in grado di preservare la sopravvivenza di questa grande conchiglia bivalve. La sala del Museo del Bisso. Appena si entra nella sala si è colpiti da fotografie, diplomi e da numerosi riconoscimenti dell’attività divulgativa di Chiara. Volgendo lo sguardo poi sopra ad uno tavolo in legno di ginepro meravigliosamente intarsiato dal fratello di Chiara Vigo, Maestro intagliatore, ritroviamo il serpente: un lungo tronco di legno finemente lavorato che riproduce la testa di un serpente nelle sfumature di azzurro e grigio. In una vetrina di fronte all’ingresso vi è un coloratissimo ricamo che rappresenta l’albero della vita. Seguendo l’interpretazione ne “Il linguaggio della Dea” di Marja Gimbutas, l’albero della vita è un’antichissima simbologia che rappresenta la misteriosa forza vitale, il legame fra l’essere e il non essere. Questo albero stilizzato si diparte da un “vaso a clessidra”, simboleggiato da due triangoli uniti al vertice, che appoggia sull’acqua, simboleggiata dagli zig-zag ricamati in basso. La “clessidra” è un antropomorfismo semplificato della Dea, ed incarna sia la Morte che la Rigenerazione. Dal tronco dell’albero si dipartono quattro grossi rami che si avvolgono su stessi: questi potrebbero rappresentare “serpenti”, simboli ancestrali di rigenerazione e salute, che rafforzano la simbologia dell’albero. Il serpente è infatti una potente divinità del focolare, comune in quasi tutta l’Europa antica, esso assicura fertilità, crescita, salute ed è il custode della famiglia e degli animali domestici. Alla base e in alto ci sono animali stilizzati presumibilmente uccelli: in basso potrebbero essere uccelli acquatici apportatori di felicità, ricchezza e nutrimento; in alto invece si distingue chiaramente un uccello nero, probabilmente un rapace,epifania della Dea della Morte ma anche della Rigenerazione poiché porta in bocca un ramoscello dell’albero. Nella sua interezza l’albero è tutto un fiorire di vita con i coloratissimi fiori. Una trasformazione dell’albero della vita con i serpenti che si avvolgono sopravvive ancora oggi, sotto gli occhi di tutti, come simbolo della professione di medici e farmacisti.

 

Anche l’usanza cristiana di piantare croci nei campi il 3 Maggio, giorno di Santa Croce, è la trasformazione di un antico rito pagano della fertilità che richiama la simbologia dell’albero della vita. Ancora oggi in Sardegna la cultura della Dea Madre è ancora molto forte, sebbene poco appariscente. Un piccolo aneddoto capitatomi di ritorno da Cagliari. Il mio amico Matteo aveva promesso di portare ad una sua amica una calamita (quelle da attaccare al frigorifero) ed era indeciso su due: la prima raffigurava una scena di festa popolare con figuranti in abiti tradizionali, la seconda ritraeva una della classiche immagini della Dea sarda della cultura Ozieri. Essendo indeciso sulla scelta, ha chiesto il mio parere. Ho risposto che senza alcun dubbio avrei scelto la Dea. La commessa, una signora che nel frattempo stava attendendo discretamente in disparte, mi ha prontamente approvato mostrando orgogliosamente il ciondolo della Dea appeso al suo collo.

 

Elena Fornaciari

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