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Mare Nostrum

Ciao Velisti per caso. Sono Fabrizio Veronesi, ma non "quel" Fabrizio Veronesi che ha già pubblicato sul tema del mare, e il cui racconto più noto è "Barco de Fero"... Solo un caso di omonimia! Molto più modestamente mi diletto di vela da qualche anno come socio de "Il Paterazzo", associazione senza fini di lucro con la finalità di promuovere l'arte marinaresca con sede a Verona. Il racconto che vi mando parla di un incontro con Stromboli, in una notte senza luna...

 

Leggi il racconto di Fabrizio intitolato Mare Nostrum, poi mandaci anche il tuo diario di bordo: lo pubblicheremo!

 

Mare Nostrum

 

Milleottocento giri. L'elica trita un brodo di meduse fosforescenti, che affiorano dagli abissi e si offrono alla vista, fino in profondità. Nella scia, cupole diafane svaniscono in una schiuma verdastra. Intorno il mare respira appena, sotto un foglio di domopack stirato, sul quale le stelle si rincorrono in stretti giri, come sfere d’acciaio. Abbiamo alle spalle Maratea e il suo crocefisso bianco, alto sulla collina. Solo ieri, arrivando dal largo quando il sole era già tramontato da più di un'ora, la croce luminosa ci guidò, nella notte imminente, fino all'imbocco del porto. Scorgemmo solo all'ultimo il varco tra le dighe foranee, che le luci d'entrata - rossa a sinistra e verde a destra - non avevano ancora svelato. Atterrammo in silenzio tra lunghe braccia di pietra, che ci accolsero senza domande. Finalmente, avevamo alle spalle i due giorni precedenti, passati in gran parte a sbattere contro un mare duro, dritto sulla prua, con lo stomaco stretto in gola come quando - da ragazzini - ci si infilava dentro gli autoscontri e ad ogni giro, inseguendo sguardi bianchi come schiuma, a denti stretti, pensavamo: "E adesso vediamo chi rimbalza di più"... La notte è passata in fretta, nel silenzio del porto.

 

Stamattina, tutto è più chiaro. Il bar sulla piazzetta sembra perfetto per il primo caffé. Pippo è già lì, con un piccolo gruppo di amici, lo sguardo che ha già registrato tutto. Poche parole, scambiate con Attilio; sguardi sorpresi, un sorriso: "Anche tu, nelle ferrovie... Macchinista? A Verona, come no!" Si accendono i ricordi. Pippo racconta di quando - sulla macchina a vapore - spostava i convogli da un binario all’altro, sporco di carbone. "Begli anni.  Sembrava di averli tutti davanti". Nel raccontare, sembra guardare lontano, a cercare due occhi neri e furbi, che già conoscevano ogni segreto del porto. Sorride con la faccia sveglia. I ricordi vanno alle notti passate affondati in briciole di brande, al confine, o dentro la profondità del mare padano, nella nebbia, come al mare d’inverno. "...E il vecchio capostazione, come si chiamava?". Anche la stazione, in fondo, è un porto. I sassi, bianchi di calce, sembrano inabissarsi tra onde evanescenti di partenze e di arrivi. I treni vanno avanti e indietro, come certi traghetti, con grandi portelloni uguali a prua e a poppa che si spalancano per ingurgitare le auto per poi vomitarle all’arrivo, lasciando come scia rotaie d’argento, lucide di pioggia.

 

Per Attilio, il nostro skipper, ferroviere di fresca pensione, è un amarcord di un'intera vita. Verrebbe da ricominciare, ma i chilometri devono essere stati tanti, seduto in prima fila a veder le traversine correrti incontro, sempre uguali. E’ meglio stare qui, seduti al piccolo bar sul porto, sotto il sole di marzo, dove ci sembra di avere tutto il tempo che serve... Dobbiamo recuperare una bombola di gas, stiamo ormai finendo anche la riserva... "C’è un negozio, in paese... Dovreste fare in tempo". Forse è un caso, ma si va in treno. Tre di noi saltano dentro la macchina di un amico di Pippo, e su, verso la stazione. Io rimango con Dario, appena arrivato in treno a dare il cambio a Rita. Si sale in visita guidata su uno yacht ormeggiato in porto, affidato alle cure di Pippo. E’ tutto rivestito in moquette blu. Sulle porte di vetro, brillano maniglie cromate. Ci sono anche due grandi barche a vela, due cinquanta piedi da regata alle cui cure stanno provvedendo i suoi ragazzi. Ma lì non si sale.

 

Ci scambiamo del vino, un saluto e il numero di cellulare. Non si sa mai: i porti stanno lì, ad aspettare un segno del destino, un groppo di vento e tutti dentro: belli, brutti, marinai e quaqquaraqquà.  Ah, dimenticavo la nostra nuova lingua: così, per gioco, dall’inizio della navigazione - dopo l’arrivo a Ischia e poi a Capri - con Giorgio e Nicola ci divertiamo a parlare in napoletano. E’ stato così per tutto il viaggio, e alla fine ci sentiamo veramente un po' napoletani. E’ una scoperta! Le cose sembrano più facili da dire. Pure se sfotti, lo fai con un po’ di gentilezza, e poi c’è quel Voi, al quale puoi far seguire "Tutt’eqannt’ecos che vvuo", che non insulti mai la persona che hai davanti. Rifletti sui comportamenti, e glielo fai sapere... Filosofia?!Al ritorno del gruppo, si decide tutto in fretta. Le previsioni danno buono, e si decide di fare la tappa che non si era quasi pronunciata, troppe le variabili che avrebbero potuto impedirla. Il pieno è fatto. Rotta per 180°, si va alle Eolie.

 

Ed eccoci qua. Sei nodi sotto un ombrello nero, con una fantastica texture di buchi di spillo, luminosi come mai, nella notte senza luna. Il pilota automatico è inserito. Ogni tanto un’occhiata all’orizzonte, su quella che temevamo essere un’autostrada verso il Tirreno, proveniente dallo stretto di Messina. Invece sono poche le navi che incrociamo: alcune sono veloci alberi di natale, altri sono pescherecci d’altura, anch’essi luminosi, ma fermi. Sale una fetta di luna. Il domopack, si accende verso est. La notte sprofonda nel rumore del motore, che a quest’ora è una ninna-nanna. Cadono i primi eroi. In pozzetto, io e Dario lasciamo correre la barca in silenzio. Controllo la rotta sul Gps, è una linea dritta su Stromboli.Deve essere lì, proprio sulla prua. Da un po’ lo sto aspettando. Come quel Venerdi 12 ottobre 1492, alle due del mattino, quando Juan Rodriguez Bermejo, da bordo della Pinta, urlò ai compagni: "Tierra! Tierra!" Fuoco. Dev’essere qualcosa di grande. Percepisco appena l’alone sopra l’orizzonte. Non è un riverbero della luce di via, a sinistra del musone di prua. E’ qualcosa di indistinto, quasi una sensazione. Ma non può essere la luna rossa che una volta vidi sorgere dal mare, inaspettata e gigantesca, tanto che sembrava di assistere al sorgere di Marte, e che fu preceduta dallo stesso, indistinto accendersi dell’orizzonte.

 

Prendo il cannocchiale, ma non serve. "Dario, eccolo lì". Siamo a più di venti miglia, e la lingua di fuoco si vede già. E’ ancora una brace di fiammifero nel buio pesto, ma la sua luce è cocciuta, non scema lentamente, né scompare, risucchiata nel nero del carbone. E’ una ferita che sanguina materia lucente. Da così lontano, quel silenzio di fuoco è il lamento della terra. La stanchezza si fa sentire."«Sono Juan Rodriguez Bermelo, a bordo di Brise, un First 42.7 in trasferimento dalla Costa Azzurra a Lignano, in avvicinamento a Stromboli nell’anno del Signore 2007, mese di Marzo". Ormai l’immagine è catturata, il vulcano è nostro, per sempre. Diciotto miglia, tre ore e saremo al suo cospetto. Cambio turno, io e Dario scendiamo a riposare un po’.Voci, scendono i giri motore, passi pesanti. Più che sufficiente per aprire gli occhi e salire in coperta, non prima di aver trovato la digitale. La sciara scende dritta, in due rami. Il più grande piega verso destra con un angolo evidente e si immerge, in silenzio, in una nuvola di vapore che sale rapida e compatta.

 

Da mesi è così. La protezione civile ha vietato l’avvicinamento all’isola, ma sono le due di notte, e davanti al versante nord ci siamo solo noi, immobili in un mare immobile, a guardare il torrente di fuoco. Nella completa oscurità, il magma scende velocemente, in maniera ordinata, nel suo letto stretto e ripido. Penso alla materia fusa, al fatto che forse la vediamo nello stato in cui era al momento della nascita del sistema solare. Una lama dorata, nello specchio nero dell’acqua, arriva sottobordo.Restiamo in silenzio. Cerchiamo di fare fotografie, ma i piccoli schermi delle digitali e delle telecamere restituiscono pennellate rosse e bagliori su sfondo nero. Niente, al confronto di ciò che si sta imprimendo nella mente e nello spirito. Siamo a non più di trecento metri. Azzardo una richiesta: "Andiamo più vicino?". Attilio mi guarda da sopra gli occhiali. Risposta eloquente.

 

Per fortuna, qualcuno resiste al richiamo di questa sirena cangiante. Io ho già ceduto. Sono conquistato, ammaliato, prigioniero di questa visione. Il mare è ancora petrolio denso. Vorrei rimanere ancora qui, fino a quando l’aurora - tra poco -  diluirà in blu cobalto il nero del cielo, permettendoci di distinguere la sagoma nera della montagna. Poi, ad est, una striscia bianca si allargherà, spegnendo via via le stelle meno luminose, fino a lasciare Sirio a ovest, indomita, a sfidare il giorno. Invece partiamo. Nel buio, distinguo il crepitìo della materia incandescente che si immerge, alimentando il versante sottomarino del vulcano. Mi viene in mente il Titanic, mentre affonda con le luci accese nella calma artica. Torno in cuccetta, il turno successivo si occupa di dirigere la barca su Salina. Il sonno arriva subito, mentre il cervello archivia lentamente le emozioni.Mi sveglio mentre stiamo entrando nel porto. Tutto il paesaggio è di un turchese blando. Sono le cinque e mezzo, la nostra piccola traversata è compiuta. Caffé.

 

Salina a Marzo è un giardino dell’Eden. Agavi, cactus, cedri e una solitudine che non ti aspetti. Una bellezza selvaggia, verde e fiorita, ci circonda. Ci inoltriamo sulla strada, a piedi, salendo un po’ sul versante est, sopra al porto, e dopo un chilometro o due scendiamo di nuovo al livello del mare, nelle ultime propaggini del paese, verso sud. Tornando, passiamo ai bordi di un campo da calcio, la sabbia nerastra. Una porta, senza rete, per segnare nel blu. Il sole sta scendendo, dietro la sommità del vulcano spento. Davanti a noi, Lipari ostenta ancora la sua bellezza dorata.Arrivati in porto, recuperiamo la cena prenotata subito dopo l’arrivo, in una pescheria appena sopra il porto: pagelli rosati, che abbrustoliamo a dovere, utilizzando un bidone come braciere, proprio sul molo, davanti alla barca. Si mangia in pozzetto. Il mondo è tutto dietro il molo, alto davanti a noi. Per la prima volta in questo viaggio vorrei essere altrove. Sapevo che questa sensazione sarebbe arrivata. Ci bevo su.

 

Più tardi, cediamo il nostro prezioso strumento di cottura – ancora in piena efficienza – ad un equipaggio francese appena arrivato e diretto in Grecia, no forse in Turchia... Sono in due o tre barche. Mi sembrano tutti ragazzini.. Scambiamo poche parole. Raccontiamo del nostro incontro con il vulcano, vedo emozione nei loro occhi. Mangiano, e subito dopo ripartono, lasciandoci con la sensazione di essere marinai d’acqua dolce... Loro, invece, ripartono da veri duri, davanti ai nostri occhi ammirati... Forse faranno un largo giro, per vedere Stromboli di notte, prima di dirigersi verso lo Stretto. Ci buttiamo in cuccetta con un sorriso soddisfatto...L’indomani salgo in coperta per primo. Con gli occhi ancora chiusi, subito non mi accorgo di nulla, ma dopo poco vedo le impronte delle mie scarpe nel pozzetto. Mi guardo intorno, e tutta la barca è coperta da un sottile strato di fuliggine. "Dannati francesi!" Sono rimasti lì, davanti alla nostra barca, ad arrostire quei loro maledetti pesci, ed ecco qua: barca da pulire! Secchio e frattazzo, e sequela di “vaffa”.. Sveglio tutti, e tutti ridono, e si uniscono al coro antifrancese. Tanto li abbiamo battuti al mondiale.

 

Poi qualcuno scende, calpesta il molo. La stessa patina nerastra. Anche sulle altre barche. Anche su quelle in fondo. “Vaffa”... ai francesi, lo stesso, ma non sono stati loro. Stromboli ha voluto darci il buongiorno. Nella notte, come avremo saputo da lì a poco, sul versante dove si era aperto il nuovo cratere, c’era stata un’esplosione più forte, con emissione di lapilli e di cenere che hanno viaggiato nel vento di quota, per trenta miglia. Lo ringraziamo per non averci dato la buona notte.Salpiamo da Salina la mattina seguente, girandole intorno per ammirare dal mare le piane di Malfa e Pollara, sui versanti nord e ovest.  Lasciamo l’isola a sinistra, con le due bocche ormai spente, spalancate verso il cielo, mute. Navigando ancora a motore, rendiamo omaggio anche a Lipari, alle sue cicatrici bianche di tufo, e ai camini fumanti di Vulcano. Gli aliscafi sembrano aironi scuri, lanciati per alzarsi in volo. Rotta Est-Sud-Est. Si va a Scilla, e poi a Reggio, dove io, Giorgio e Nicola finiremo il nostro viaggio. Il pomeriggio assolato ci regala il salto di uno spada. Nero e lucido, si contorce in aria e ricade tra gli spruzzi. In un attimo, comprendo la tenace pazzia del Vecchio Cubano.

 

Quanta bellezza avremo ancora incontrato. Scilla, splendente nella luce dell’alba, vista dal porto è l’Italia di un’altra epoca. I suoi vicoli ti rapiscono e ti portano, leggero, fino al castello. Il suo mare ribolle, ultimo gemito dell’antico e immane gorgo, pronto a inghiottire chiunque osasse sfidarlo... Reggio, con il suo porto che sembra da terzo mondo, e la sua passeggiata sul mare, con le luci, i ragazzi sparpagliati all’imbrunire, le piastrelle bianche e grigie, le palme. Mi ricorda Copacabana. E ancora, non ultima, l’emozione di un incontro straordinario con i Bronzi di Riace. Sono vivi! Stanno lì, come di ritorno da una giornata di gloria ai giochi di Olimpia, con l’elmo e la lancia. Sembrano aspettarci, per dire: "ricordatevi che cos’era questa terra. Ricordatevi chi siete". Ma - come si dice  - questa è un’altra storia. Resta giusto il tempo per una cena, una foto, un abbraccio. Salutiamo il Gigi con nuovo il equipaggio, che si unisce ad Attilio e Dario per continuare il viaggio, passare lo stretto e affrontare le bizze del golfo di Taranto. Grazie Brise, Buon Vento.

 

Fabrizio (Icio) Veronesi

Velista per Caso

 

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