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Dalla Sicilia alla Sardegna

15 September 2010 ore 12:00

di Gianni Siroli.



Sono le 15 di un pomeriggio di metà settembre, in viaggio per raggiungere Trapani. Sono appena atterrato a Palermo Punta Raisi, aeroporto "Falcone-Borsellino". Cosa si può pensare arrivando a un aeroporto con questo nome? Il primo simbolo che la Sicilia mi offre e’ quello di due martiri della lotta, impari, di una parte delle istituzioni contro “Cosa Nostra”. E’ un simbolo o un monito? Sinceramente non so. Mi viene in mente che ora per andare a Trapani dovrei prendere l’autobus fino a Palermo, lungo l’autostrada che passa per Capaci, dove 16 anni fa, sembra un’eternità, centinaia di chili di tritolo hanno posto fine all’esistenza del magistrato Giovanni Falcone, della moglie e dei tre poliziotti della scorta. Ma non basta: l’autobus che mi dovrebbe portare da Palermo a Trapani parte da viale “Picciotti”...sembra uno scherzo, ma non lo e’. Questi sono i miei primi pensieri, mentre respiro l’aria ancora quasi estiva della Sicilia.



Per caso trovo quello che e’ forse l’unico autobus della giornata che va direttamente da Punta Raisi a Trapani e ci salgo al volo; ringrazio mentalmente gli autotrasporti siciliani che mi risparmiano l’inutile viaggio a Palermo, nella direzione opposta alla mia destinazione. L’autobus e’ semivuoto e si parte appena caricata la mia valigia. Comincio a vedermi scorrere attraverso i finestrini le prime immagini della Sicilia, che io non ho praticamente mai visitato, eccetto un breve viaggio di lavoro a Catania che almeno mi ha permesso di vedere velocemente Taormina, con il suo magnifico teatro greco. Ben presto ci si allontana dalla costa e la prima cosa che mi colpisce e’ il colore della terra, un rosso scuro molto intenso. Il paesaggio che mi scorre davanti e’ un misto di terra e roccia, disseminato qua e là da macchie gialle di erba secca che risaltano in questa giornata di sole. Vorrei provare ad annusare l’aria ma i finestrini, purtroppo, sono sigillati. La prima impressione e’ di una campagna inaridita, ma con il passare dei chilometri vedo alternarsi davanti ai miei occhi filari di viti, alberi da frutto ed orti. Il ricordo del teatro greco si sovrappone alle indicazioni stradali per Alcamo, fondata da un comandante musulmano da cui ha preso il nome (al-Kamuk), Segesta, edificata dai Troiani dell’Asia Minore, Mazara del Vallo, fondata nell’VIII secolo a.C. dai fenici; tre civiltà in quasi 2000 anni.



La Sicilia, posta al centro del Mediterraneo, ne conoscerà molte altre nella sua storia, e potrebbe essere presa come l’emblema stesso di questo mare. Attorno a me ci sono colline tondeggianti, quasi onde marine congelate nel loro movimento, sormontate da picchi rocciosi che sembrano creste frangenti di un’antica tempesta. E’ come se il mare che circonda l’isola proseguisse sulla terra, ma senza più movimento, pietrificato, sospeso e bloccato per sempre. Superato un vasto impianto eolico con grandi pale che girano lente e sincronizzate, appare improvvisamente il piccolo borgo di Erice, posato su un picco a ridosso di Trapani. Vista bellissima, purtroppo deturpata da una quantità spropositata di antenne che sembrano cresciute, selvatiche, come in un bosco. L’autobus entra in una Trapani abbastanza vuota, mi chiedo dove sia la gente. Prima di scendere noto un’immagine abbastanza curiosa, decisamente insolita e singolare. Sul marciapiede c’e’ un grande bancone dove si vendono solamente due articoli: dei meloni di un giallo intenso tanto grossi da farmi dubitare inizialmente che siano davvero meloni, e di fianco...delle statue, alte circa mezzo metro che devono rappresentare un qualche santo locale. Meloni e santi. Cosa c’e’ di più ovvio? Quando si esce a comprare meloni, se per caso ci si e’ dimenticati di comprare il santo...lo si trova lì.



A Trapani resto per un paio di giorni in attesa che arrivi Adriatica, sulla quale mi devo imbarcare, in navigazione da Pantelleria. La città non mi entusiasma in modo particolare. Passeggiando trovo un circolo di pescatori che sembra uscito da un racconto di Giovanni Verga: sotto ai bastioni della città, in una stretta spiaggia tra le mura ed il mare, attraversando un arco a volta, si arriva a un ritrovo dove una decina di pescatori siedono, chi attorno a un tavolo, chi su delle semplici sedie da cucina, scrutando il mare. Parlano, poco, un siciliano stretto che non capisco, e mi guardano, come se fossi appena atterrato da un altro universo. Di fianco al circolo, una lapide ricorda i pescatori scomparsi in mare. Sulla via principale entro in una piccola libreria dove, con mia sorpresa, trovo un intero scaffale di libri sulla mafia; come verrò a sapere nei giorni seguenti e’ una delle librerie storiche di Trapani. Evidentemente l’argomento non e’ “off limits” come immaginavo, ma mi diranno che alcune cose possono essere tollerate: fa una buona impressione vedere esposti libri sulla mafia, purché la cosa mantenga un profilo basso (e considerato quanto poco si legge in Italia, e’ difficile che esporre libri possa avere conseguenze significative). Comunque chiedo alla proprietaria della libreria dove andare a mangiare, visto che il mio pranzo e’ praticamente saltato durante il viaggio ed ho deciso di rifarmi.



Qui la cucina e’ decisamente buona: mi offro una cena con antipasto di pesce spada all’aceto balsamico e formaggio salato, seguito da un buonissimo piatto di spaghetti alla bottarga. Nei giorni seguenti riscoprirò i cannoli siciliani e tutta una serie di arancini e cose simili, di cui ignoravo l’esistenza, dai sapori più diversi e tutti ottimi. Faccio colazione leggendo giornali locali, per farmi un’idea dell’ambiente: in un paese qui vicino sono stati rubati dei cavi elettrici da una centralina. Fin qui un evento abbastanza normale, cosa che però ha avuto come conseguenza di lasciare per qualche tempo tutto un quartiere al buio e senza acqua potabile; dei ladri decisamente antisociali. Poi c’e’ la struggente storia dell’asino “Ciccio”: viveva, assieme al padrone, in un appezzamento di terreno nei pressi di alcune abitazioni, cosa che era causa di effluvi di una fragranza evidentemente non gradita dai vicini (l’articolo non precisa se il padrone non ne fosse al corrente o se puzzava come l’asino). Ad ogni modo, in seguito alle proteste del vicinato, l’autorità preposta (ora non ricordo esattamente quale avesse giurisdizione sul caso) aveva deciso di macellare la povera bestia. Ma c’e’ un lieto fine: grazie alla colletta di un’organizzazione per la protezione degli animali, era stato pagato il “riscatto” (parola testuale dell’articolo) e l’animale era stato salvato. Questo per il contesto. La cosa decisamente più bella di Trapani e’...Erice.



E’ un magnifico borgo, apparentemente citato da Virgilio nell’Eneide, un’antica roccaforte cartaginese che, posta sulla sommità del monte San Giuliano, domina la città di Trapani ai suoi piedi ed il tratto di mare antistante. Un abitato con caratteristiche medievali, un castello normanno ed un bellissimo duomo di forme gotiche con una piccola spianata, di fianco a un campanile “storto” rispetto alle mura della chiesa. Di notte e’ magnifico percorrere le strade ripide e strette del paese, con il vento che spazza la solitudine della serata di fine estate.



La scoperta di questo viaggio però è Favignana. Tre anni fa l’ho sfiorata quando, affittata una barca con alcuni amici a Barcellona, sulla costa nord-orientale della Sicilia, sono stato da loro trascinato nella circumnavigazione dell’isola a tappe forzate. Abbiamo passato una notte all’ancora in una caletta nel versante sud-est vest di Favignana, ma mi è stato praticamente impedito di sbarcare. Avrei voluto scendere a terra e vedere almeno il paese, ma è stato impossibile. Lo faccio ora, non immaginavo che ci sarei ritornato dopo qualche anno. Favignana è la più estesa isola delle Egadi, arcipelago che si estende a circa 15 miglia ad ovest di Trapani. Dall’insolita forma a farfalla, tagliata in due da un monte dove si innalza un forte normanno, è forse la mitica Aegades citata da Omero nell’Odissea, e risulta abitata fin dalla preistoria. Un punto di importanza strategica durante le guerre puniche, ha vissuto successivamente la dominazioni romana, araba, normanna e spagnola. Un’isola calcarea dal paesaggio arido e con poca vegetazione, anche se ad ovest, oltre al monte, c’è una zona chiamata “il bosco”, che doveva essere tale nel lontano passato ma dove ora, però, non resta più traccia di un albero. Da sempre c’e’ poca acqua, e salata. Una delle risorse di Favignana, fin dai tempi antichi, è invece il tufo, che veniva utilizzato per la costruzione di case, qui, in Sicilia, e trasportato anche in nord Africa, e la cui estrazione nel corso dei secoli ha disegnato il paesaggio dell’isola.



A Favignana, assieme all’equipaggio di Adriatica e grazie alla sua iniziativa di visitare una serie di porti del Mediterraneo, sono venuto in contatto con la cultura della tonnara; attenzione, non la “tradizione” della tonnara, direi proprio della “cultura” che si e’ creata attorno a questo metodo di pesca. Tecnicamente e’ una pesca che sfrutta una serie di camere costituite da reti che permettono di convogliare i tonni in una camera finale, detta della morte, che viene chiusa e dove i tonni sono costretti a risalire in superficie e pescati, o meglio dire arpionati; certamente un’immagine molto cruenta tanto da essere definita “la mattanza”. Della tonnara ha cominciato a parlarci il “Rais” di Favignana, cioè colui che organizza la tonnara e tutte le fasi della pesca. Già il fatto che sia usato un nome arabo, che significa “capo”, la dice lunga sulla storia di questa tecnica di pesca, introdotta dagli arabi in Sicilia circa mille anni fa, ma della quale già scrivono Omero e Plinio. Apparentemente i rais siciliani erano particolarmente esperti, tanto da essere chiamati a costruire tonnare anche in nord africa. Il Rais ci appare per strada al termine di un acquazzone, con il sole che ricomincia a scaldare la pelle, proprio di fronte a casa sua: alto quasi due metri, un fisico massiccio, 130kg di peso, abbronzatissimo, un grande sorriso, camicia a fiori aperta sul petto dove ciondola una pesante catena d’oro in cui e’ incastonato il dente di uno squalo (pescato da lui a quanto ci dice) grande come la mano di un neonato. Ha quasi 70 anni ma certamente non li dimostra. E’ lui che comincia a parlarci dei tonni, che vengono da ovest, dall’Atlantico entrano nel Mediterraneo, molti seguono la costa nord della Sicilia, attraversano lo stretto di Messina e nel loro viaggio di ritorno verso l’oceano procedono lungo la costa africana dove ci sono le cosiddette “tonnare di ritorno”. A quanto ci dice il Rais, “la tonnara e’ organizzazione”: dall’attrezzatura, le reti, con il loro corretto posizionamento e la riparazione, alle ancore di vario tipo per mantenerle fissate sul fondo, alla manutenzione delle imbarcazioni, alla gestione delle camere in sincronia con il passaggio dei tonni, all’importantissima decisione di quando pescare. Ci sono delle lapidi che ricordano delle eccezionali mattanze, avvenute a metà ‘800, con più di 10000 tonni. C’è una tonnara a Favignana ed un’altra, ormai in disuso, all’isolotto Formica, poco più di uno scoglio tra qui e Trapani, nell’antichità forse un rifugio per i naviganti in difficoltà. Gruppi di pescatori si trasferivano e vivevano, per alcuni mesi l’anno, in questa roccia affiorante di qualche centinaio di metri di lunghezza, portandosi dietro tutto il necessario per il lavoro e per sopravvivere, incluso viveri ed acqua. Si lavorava e basta. A parte le attrezzature per la pesca ed un cantiere, non c’era altro sulla minuscola isola, salvo la “Chiesetta del Rais”; qui come altrove, la religione è spesso stata usata come protezione scaramantica. La mattanza era un rito condotto del Rais, con canti popolari e preghiere. Quel lavoro era duro e pericoloso, ma i pescatori, anzi, gli uomini, ne andavano orgogliosi, come ci ha detto una scrittrice di Favignana che abbiamo incontrato sulla spiaggia, di fronte alle ancore della tonnara tirate in secco. Ci ha raccontato di un pescatore che per tutta la sua vita aveva fatto sempre lo stesso lavoro, quello di tagliare le teste dei tonni; ne aveva ormai le mani anchilosate ma era fiero di averlo fatto, come si vantava, meglio e più velocemente del Rais. Però la pesca e’ solo una parte della storia: in realtà tutta la vita di Favignana orbitava attorno alla tonnara, ed è così che la tradizione si trasforma in cultura. Nella seconda metà dell’800 su quest’isola e’ stata costruita l’industria conserviera dove per la prima volta si e’ prodotto il tonno in scatola sott’olio. Abbiamo visitato i resti dello stabilimento, questo magnifico esempio di archeologia industriale ora in fase di ristrutturazione, dove ancora si possono vedere, in secco sui loro antichi scali, alcune imbarcazioni risalenti agli anni venti ed usate nelle mattanze per oltre 50 anni. Un’industria che allora era all’avanguardia anche in campo sociale: molte donne venivano fin da Trapani per lavorare qui, ed all’interno dello stabilimento era stato organizzato un asilo per i loro figli. Il passare del tempo però ha cambiato le cose. Cosa resta oggi di questa tradizione secolare e di questa cultura? Ci dicono che ora ci sono le “tonnare volanti”: con gli aerei si individuano i banchi di tonni al largo, li si accerchia con i pescherecci e gli si gettano delle immense reti attorno. Poi li si trascina via dentro a queste smisurate gabbie marine, li si alimenta, ed arrivati in prossimità delle navi che li “lavoreranno”, li si pesca. E così, inevitabilmente, si compie una strage. Mentre prima con le tonnare a terra si limitavano le conseguenze sull’ecosistema, poiché solo una parte dei tonni veniva pescata e quelli più al largo proseguivano indisturbati, ora l’intero branco è praticamente annientato, spesso in acque internazionali dove le quote pesca facilmente perdono di significato. Con il passare del tempo il numero di tonni pescati e’ andato regolarmente diminuendo ed ormai, in una storia plurisecolare di mattanze, non si pesca quasi più nulla. E c’è anche un altro aspetto inatteso e, purtroppo, triste, almeno secondo la mia opinione. Visto che economicamente non e’ più redditizia, la tonnara e’ ormai diventata un’attrazione turistica e per mantenerla in attività viene sostenuta da vari finanziamenti. E così la sua funzione rischia di diventare quasi solo economica, quasi non importa più se si pesca o no. Anzi, per scopi turistici, recentemente sono state fatte mattanze con pescatori “in costume”; è aberrante, perché i pescatori non indossavano “vestiti da pescatori”, ma i loro abiti normali, quelli che portavano tutti i giorni… Credo che sia giusto mantenere la memoria storica delle proprie radici e delle proprie tradizioni, che fanno parte della cultura da cui si proviene, ma bisognerebbe farlo senza deturparle. Soprattutto penso che serbare la memoria andrebbe fatto in primo luogo proprio per coloro che vivono in quella società, e non per i turisti, o ancora peggio, per scopi speculativi. Per le mie origini, per la regione dove sono nato, e per i viaggi in molti paesi che ho avuto la fortuna di fare, mi è molto chiaro quanto possa essere rischiosa un’industria turistica fuori controllo, e che conseguenze possa avere: certamente porta denaro ma c’è anche un altro aspetto, quello di un certo deterioramento ambientale, a tutti i livelli, che non dovrebbe superare certi limiti. La tradizione del proprio territorio va salvaguardata e difesa da fenomeni di sfruttamento economico esasperato che ne possono snaturare i valori. Alcune cose, una volta distrutte, non si possono più ricomprare. Queste acque costituiscono una memoria storica che va però oltre ai pur molti secoli di vita delle tonnare.



La Sicilia e le Egadi rappresentano una sorta di crocevia del Mediterraneo, un punto di incontro lungo le diretttrici Nord-Sud ed Est-Ovest; lo testimonia la presenza di un sito archeologico subacqueo a poca distanza da Marettimo. Dal 3000 al 2000a.C. egiziani e cretesi svilupparono i primi commerci marittimi nel Mediterraneo orientale; l’evoluzione tecnologica navale si ebbe in particolare con i Fenici, i più abili navigatori del Mediterraneo, i quali svilupparono un’architettura navale estremamente avanzata che rimarrà quasi intatta per moltissimi secoli fino ai tempi moderni, caratterizzata da una robusta chiglia, un ponte di coperta ed un calafataggio dell’opera viva. Le sofisticate tecniche di costruzione e di navigazione, a partire dall’inizio del I millennio a.C. permisero ai Fenici l’espansione in tutto il Mediterraneo (e non solo, si avventurarono ben oltre le Colonne d’Ercole), dove furono stabiliti traffici commerciali e fondate numerose colonie, tra cui Cartagine. E Cartagine è praticamente qui di fronte: basta attraversare il canale di Sicilia, navigando non più di un centinaio di miglia verso sud-ovest (una cosa tuttavia non necessariamente semplice e tranquilla durante le tempeste), e si arriva in Tunisia. Non a caso la zona dove ci troviamo, di rilevante importanza strategica, è stata teatro di violente battaglie, come ad esempio durante le guerre puniche tra Roma e Cartagine, di cui si trovano ancora resti nei pressi di Levanzo. Ma guerre a parte, il Mediterraneo ha costituito per millenni una formidabile via di comunicazione, una strada di acqua, molto tempo prima dell’imponente rete viaria edificata dai romani che circondò le sue coste. E le anfore che si trovano in questo sito archeologico ad ovest di Marettimo, o in altri nelle vicinanze, affondate con una nave romana da trasporto, ne sono una testimonianza diretta. In questi “cocci”, spediti apparentemente dalla Campania su una barca che qui avrebbe magari caricato tufo verso qualche altra destinazione, io percepisco un simbolo dell’incrocio tra popoli, lingue e culture diverse, che si sono evolute lungo le rive del Mediterraneo, questo “ponte marino” che da sempre mette in comunicazione gli uomini, le loro idee e le loro conoscenze. Una miscela di diversità che con il passare del tempo ha rappresentato un fertilizzante reciproco per tutti. A questo proposito mi ritorna in mente un’immagine sorprendente: mentre passeggiavo per Favignana, mi è accaduto di incontrare un paio di volte un indiano che vendeva cianfrusaglie, con il quale ho scambiato due chiacchiere, pelle scura, vestito completamente di bianco con tunica lunga e turbante. Come sia arrivato e cosa ci faccia un indiano a Favignana, probabilmente meriterebbe un romanzo. La sua presenza è incomprensibile, sembra essere completamente fuori contesto, eppure è lì, un altro simbolo della mescolanza che il Mediterraneo favorisce. Da qualche anno a questa parte, questo mare, le coste siciliane in particolare, sembra siano state ridotte a un luogo di rappresentazione mediatico-teatrale dell’arrivo di “clandestini”; neanche si parla più di uomini, come se la mancanza di documenti di identità o di autorizzazioni possa fare passare in secondo ordine l’appartenenza alla specie umana. Abbiamo decisamente la memoria corta. Solo “qualche tempo fa”, nei lunghi secoli bui dell’alto Medio Evo, l’Europa è stata debitrice del sapere, dall’astronomia, alla matematica, alla medicina araba, che ci giungeva attraverso lo stesso mare, portata dagli avi di quelli stessi che ora chiamiamo “clandestini” e che per fortuna (nostra) hanno mantenuto i contatti con una cultura allora chiusa e limitata (la nostra di allora).



A questo punto, quale sarebbe dovuta essere la nostra naturale destinazione? Ovviamente la Tunisia, il lato sud del Mediterraneo. La nostra meta era idealmente Cartagine, dove Adriatica ci avrebbe condotto navigando attraverso il canale di Sicilia, lo stretto braccio di mare che ci separa dalla costa africana. Ma, come sostenevo poco fa, anche se la distanza e’ limitata, non è detto che la navigazione sia facile, anzi, in certe condizioni è decisamente sconsigliata e può anche risultare pericolosa. Per lunghi secoli, a causa delle tempeste e per la mancanza di visibilità, la navigazione in Mediterraneo era sospesa dall’autunno alla primavera; Venezia, una delle antiche repubbliche marinare che deve al mare la sua fortuna plurisecolare, ancora nel 1200 chiudeva ufficialmente il porto tra ottobre e marzo. La sera prima della prevista partenza siamo ancorati a Favignana, a Cala Azzurra, dove ci siamo nascosti per proteggerci dal mare “lungo” proveniente da ovest, indizio rivelatore di una lontana burrasca. Rinfresca, ma all’aperto si sta ancora bene, non c’e’ una nuvola in cielo. Assisto, muto e incantato, a un tramonto policromo, incendiato da magnifici caldi colori, seguito, un’ora dopo, dal sorgere ad est di un’immensa e maestosa luna piena, che si tinge di rosso fuoco mentre lentamente si solleva dall’orizzonte marino. Un affresco cosmico, come solo il mare sa creare. Siamo all’ancora a circa cento metri da riva, una bianca scogliera verticale sulla quale si infrangono le onde. Nel silenzio della piccola baia questo e’ l’unico rumore che si avverte, anzi, direi che e’ quasi musica: il ritmo lento, regolare, delle onde scroscianti che percuotono la parete di tufo. Dopo cena scendo in cabina a riposare un po’ e a leggere. La barca è insolitamente silenziosa. Al sussurro in sottofondo del lontano frangersi delle onde sulla scogliera, si sovrappone il leggero e delicato scricchiolio della barca che rolla dolcemente all’ancora. Mi sembra di risentire ora questa sinfonia. Alzo gli occhi dal libro: di fianco alla mia cuccetta, appesa a un attaccapanni, c’è la cerata, dondola delicatamente a destra e a sinistra accompagnando il lento movimento di Adriatica. Sembra viva. E forse, c’è qualcuno dentro: lo spirito del marinaio di un antico veliero, che nel rollio della bonaccia, aspetta pazientemente il vento, ascoltando i suoni, i rumori, la voce della nave. Ma Nettuno ha deciso altrimenti: non sarà questa volta che attraverserò il canale di Sicilia, lo farò nel futuro, se capiterà di nuovo l’occasione.



Le previsioni meteorologiche in continuo peggioramento ci impediscono purtroppo di partire verso l’Africa. Il dio del mare sta scatenando le sue tempeste e sarebbe presuntuoso opporvisi. Il giorno dopo salpiamo quindi direttamente verso Cagliari, un’altra antica colonia fenicia. Ci impiegheremo poco meno di 24 ore per raggiungere Villasimius, all’estremità orientale del golfo di Cagliari. Un atterraggio notturno delicato, in prossimità di scogli affioranti non segnalati da nessun fanale e quindi completamente invisibili al buio. L’unica cosa che si distingue sono i contorni di una fortezza costiera in cima a un promontorio; il giorno successivo, navigando verso Cagliari, vedremo parecchie torri di avvistamento lungo tutta la costa, vestigia del periodo di conquista spagnola, costruite per contrastare gli sbarchi turchi. Quello che mi sorprende è però quanto poco tempo ci abbiamo impiegato per navigare dalla Sicilia alla Sardegna, le due principali isole del Mediterraneo occidentale. E’ vero che per mancanza di vento abbiamo navigato parte del tempo a motore, ma anche se fossimo andati solo a vela, la cosa non sarebbe cambiata sostanzialmente. Per la prima volta mi rendo conto di quanto sia piccolo il Mediterraneo, non razionalmente, con la misura delle distanze su una carta geografica, ma fisicamente, viaggiando, con la percezione diretta del fluire del tempo durante il viaggio, viaggio che nei secoli passati non poteva durare molto di più e che doveva dare necessariamente la stessa sensazione. Mi sembra quasi di viaggiare nel tempo.



A Cagliari la mia permanenza sarà più breve: il tempo che mi ero regalato sta finendo, devo ritornare, verso il lavoro. Però nel poco tempo che ho a disposizione, nell’ambito delle iniziative connesse ad Adriatica, ho l’occasione di incontrare Pinuccio Sciola, un artista di fama internazionale (onestamente, a me in precedenza sconosciuto, ma è noto in tutta la galassia che la mia cultura artistica è prossima allo zero assoluto). Pinuccio e’ famoso per aver creato importanti murales, in particolare nel suo paese natale, San Sperate, divenuto in questo modo un “Paese-Museo”, ed a Città del Messico, ma e’ anche noto come scultore, per le sue “pietre sonore”. Questa cosa delle pietre sonore mi incuriosisce molto. E sinceramente ancora di più mi appassiona la chiacchierata di un buon quarto d’ora che casualmente mi capita di fare con lui, mentre si aspetta insieme l’inizio di una manifestazione pubblica in cui Pinuccio e’ uno dei protagonisti. In questo pur breve lasso di tempo la sua descrizione delle “pietre sonore” mi sommerge, riesco ogni tanto a prendere la parola per qualche rapida domanda, ma sono immediatamente inabissato di nuovo. E’ un fiume in piena, mi spiega tutto mentre mi porta verso la sua auto e, continuando a parlare metà dentro e metà fuori dell’abitacolo, la mia testa attraverso il finestrino per sentire quello che mi dice, mi regala dei volumetti che descrivono i suoi lavori, mi invita a cena (purtroppo non ci potrò andare, ma mi dicono che la sua casa sia praticamente un museo), poi mi conduce a queste pietre e me le fa ascoltare, accarezzandone delicatamente la superficie con le mani. Un suono che ho difficoltà a descrivere: continuo, acuto, mi sembra quasi elettronico, da cui Pinuccio riesce magicamente ad estrarre una melodia quasi cosmica. Sono sincero: se prima di incontrarlo mi avessero detto che la pietra suona, mi sarei messo a ridere, e tutt’ora stento a crederlo dopo avere provato io stesso a suonarle, ma lui e’ riuscito a far uscire musica dalla pietra, ha trovato il modo di dare un suono ed una voce a una materia solo apparentemente muta, che certamente nessuno aveva mai ascoltato prima. Ma cosa sono queste “pietre sonore”? Posso descriverle in modo scientifico, molto asettico, come blocchi litici di dimensioni variabili, attraversati da incisioni regolari e profonde che creano una fitta sequenza di lamine verticali. Un reticolo insomma, che sfiorato con le mani (e qui la scientificità cessa) viene messo in vibrazione e dà vita a un’armonia. E ad ascoltarlo, è straordinario. Ma c’è un altro modo di vedere la cosa, meno scientifico, più umano, quello di Pinuccio: il basalto, roccia vulcanica, fossilizza la voce dell’eruzione del vulcano da cui nasce, e dopo un tempo interminabile, lo restituisce all’uomo. La pietra sollecitata dalla mano dell’uomo restituisce la memoria dell’universo. E’ il suono del magma originario che, come sospeso e solidificato nella pietra, attraversa il tempo, giunge fino a noi e si trasforma in musica. Pinuccio ha anche creato pietre sonore utilizzando altri tipi di roccia, ad esempio marmi calcarei, materia che ha memoria della sua origine sedimentaria, nei fondali marini, quindi non più fuoco ma acqua, e che genera suoni diversi. Ad ogni modo, quale che sia la decrizione preferita, quella scientifica o quella più poetica, il risultato e’ sorprendente. Non ho ancora finito di leggere tutto quello che Pinuccio mi ha regalato a Cagliari, ma serbo un ricordo piacevolissimo di questo incontro.



E’ strano: sono passati dieci giorni da quando ho raggiunto Adriatica a Trapani, sembra un tempo lungo, invece la mia percezione ora me li fa apparire come un affresco, quasi un unico istante di tempo in cui tutto si sovrappone e soprattutto si miscela, pur mantenendo le singole individualità, gli incontri, le persone, i luoghi, la navigazione, il mare. Una sensazione estremamente arricchente, questo viaggio mi ha sicuramente lasciato qualcosa dentro. Prima di partire, mi chiedono di scrivere un messaggio sul libro di bordo, con il quale terminerò queste mie note:



"Sto sbarcando da Adriatica. In questa settimana, da Trapani, alle Egadi, a Cagliari, ho incontrato vecchi amici e ne ho conosciuti di nuovi, che spero di ritrovare nel futuro. Questa barca ha la singolare capacità di fare incontrare persone e idee che si nutrono a vicenda. Meno di 24 ore da Trapani a Cagliari: malgrado quello che molti affermano, il Mediterraneo e’ davvero piccolo, ed in questo universo variegato dobbiamo fare in modo che le sue rive si avvicinino sempre di più, per incontrare altre culture, diversi modi di essere e nuovi orizzonti. Un abbraccio a tutti."




Commenti

bellissimo racconto, in cui si sente l'intensa partecipazione dell'autore al viaggio

inserito da Ombretta il 24/05/2013 alle 23:57

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